02.03.2021 | 22.04.2021

In Divenire. Rodolfo Aricò

Davide Mogetta
Zeusi. Nel tempio della memoria

I bozzetti che accompagnano l’ultima opera di Aricò – Zeusi, affascinante e tremenda – si dispongono quasi in una processione verso il loro compimento, il quale solo, del resto, permette di riconoscerli come il suo retroterra. Tale rapporto immediato, ovvio, ne richiama altri, in grado di giustificare una immaginaria collocazione dell’opera sull’altare di un tempio a Mnemosyne. Innanzitutto il rapporto di questa con le altre opere dell’artista. Zeusi cancella tutti i lavori precedenti di Aricò, e tutti li ricorda; allo stesso tempo, come è tipico delle opere precedenti, nega il passato artistico nell’atto stesso con cui se ne fa carico, conducendo qui all’estremo la voracia di Aricò nel suo confronto con la storia dell’arte e i suoi archetipi.
Il nome del pittore Zeusi si era già ammantato di un alone leggendario nell’antica Grecia – visse nella seconda metà del V secolo a.C. – e sarebbe poi diventato un mito dell’arte, tramandatosi, attraverso autori latini (fra i più letti Cicerone, Plinio, Quintiliano), fino all’età umanistica e poi moderna e, da ultimo, fino a noi. Tralasciando gli aneddoti noti (gli uccelli e l’uva dipinta, le giovani di Crotone, ...) o le qualità che le fonti attribuiscono alla sua pittura, è l’aspetto mitico della sua figura ad attirare Aricò, la sua presenza insistita nel lungo cammino della storia dell’arte. Zeusi, nome e mito, resta; non come ciò che avanza al margine, piuttosto come ciò che nella negazione si conferma, come ciò che, ricordato, «fa» il presente. E su Zeusi Aricò era tornato più volte in appunti e scritti significativi, e infine, forse tentando un approccio definitivo al mito, un’intima appropriazione, nella sua arte.
Bisogna leggere un riferimento autobiografico velato, ma puntuale, nel racconto di Aricò Una risata indecifrabile (1995). Tramite lo schermo del rapporto fra allievo e maestro Aricò sembra alludere al suo rapporto con i grandi artisti e i miti della storia dell’arte, come, del resto, avviene anche in altri dei suoi racconti, e come era avvenuto in diverse sue opere. Aert de Gelder, ultimo allievo di Rembrandt, narra della morte del maestro – o, anzi, della sua “ultima” opera, in cui egli muore. Nel sorriso di quell’autoritratto nelle vesti di Zeusi, in cui si condensa l’«immenso dolore della vita», risuona la terribile risata di Rembrandt, udita una notte da Aert mentre il maestro lavorava al quadro; ma risuona anche la risata che soffocò l’antico pittore, quand’egli, finito di dipingerlo, ebbe rimirato il ritratto di una vecchia grinzosa e sfatta. Tornando in seguito nello studio del maestro per riordinarlo, de Gelder trova l’opera in uno stato che gli è ignoto. Scomparsa la scena circostante, che alludeva a Zeusi, resta il viso di Rembrandt, mentre «il significato profondo dell’opera era ormai cancellato». Cancellato, ma non perciò perduto; cancellato, ma fatto oggetto di continua ripetizione, di insistita memoria. «Da allora – racconta Aert – non ho fatto altro che dipingere innumerevoli copie di quel dipinto come io l’ho visto, quell’atroce notte, quando udii la risata del maestro. Quella risata rotola ancora nella mia coscienza come un rantolo di morte». Il riferimento si fa chiaro tornando a Zeusi, al senso che sembra assumere per Aricò questa lunga catena di rimandi.
Potremmo ragionare su quali fra i possibili riferimenti precisi possano costituire le coordinate capaci di mostrare le relazioni di Zeusi col resto della produzione di Aricò. Per esempio riscontrando la continuità che lega questa con le opere degli anni Novanta, specie gli ultimi, nel trattamento sempre più inquieto, eppure misurato, a cui è sottoposta la superficie dell’opera, e in cui si può sentire la lontana eco delle primissime opere; richiamando alla mente la forma di opere come Sensus 3, alla quale quella di Zeusi è assai vicina, pur mutandone l’orientamento; fissando l’attenzione sul cromatismo acceso, vibrante, che richiama una linea trasversale a diversi momenti del suo fare arte. Cito questi esempi unicamente per suggerire come non solo essi, ma gli elementi rintracciabili in uno studio di quel genere, per quanto articolato e utile, non sarebbero sufficienti, da soli, per cogliere le inquietudini che attraversano l’opera.
Il filo conduttore che emerge dal racconto ci porta nell’ossessione, non solo psicologica, né solo legata a una concezione della storia, del rifare sempre la stessa opera. È l’ossessione della memoria, di ricostruire sempre daccapo il medesimo, salvando ciò che fu fatto nell’atto con cui lo si cancella e vien fatto il nuovo, lo stesso nuovo. L’ossessione di ripetere la narrazione del mito, e tenerlo vivo. Ed è per Aricò un’ossessione, in fondo, metafisica: il tentativo di ricordare ciò che, proprio perché e in quanto ricordato, non è quello che doveva essere ricordato. È la percezione di come la memoria si trovi a essere sempre memoria dell’immemoriale, dell’assolutamente solitario; un compito impossibile ma ineludibile, ogni volta ancora da compiere. Zeusi è l’immagine dell’immemoriale presente in ogni ricordo, un’immagine attiva che dice del processo in cui consiste quella presenza. Questo può forse dire qualcosa della tecnica con cui la tela è costruita e ricostruita, esponendo la sovrapposizione dei momenti dell’esecuzione grazie anche all’acquosità dell’acrilico. Ma, allo stesso tempo, anche questa è solo un’immagine, è un altro ricordo – in cui si ricorda il ricordare – e perciò essa stessa non può che essere esito della sua ricerca e insieme fallimento.
Un appunto inedito di Aricò, privo di data, ma che è ragionevole riferire al periodo in cui l’opera viene realizzata, ci riporta a quest’ordine di pensieri. Ne cito un brano: «un’opera come “Ritratto a Zeusi” di Rembrandt è scaturita da un’esperienza particolare dell’autore: la solitudine e il fallimento. Tuttavia io sento che la cosa mi riguarda, perché questo fallimento diviene tutti i fallimenti. Quest’opera ci rivela una realtà ben più complessa. [...] Il fallito non appare sulla scena della vita. Tuttavia è presente nella nostra coscienza come un’ossessionante realtà». Ecco il nesso fra Zeusi, mito a cui si guarda ancora una volta attraverso il filtro di Rembrandt, e l’ossessione della memoria, nell’impossibilità di cogliere un particolare definitivo che si faccia immagine del rapporto costitutivo di ogni particolarità. E, per noi, l’immagine di questo grande fallimento: Zeusi.
L’inquietudine e il fascino suscitati da Zeusi si nutrono della memoria di chi la guarda, e al suo cospetto il singolo riferimento, il singolo ricordo diviene, nella sua solitudine, inessenziale. Anch’essa, non meno del suo autore, si nutre, vorace, della storia e del ricordo. E il suo mito rapisce la mente di chi cerca di afferrare l’eco dispersa della voce narrante. Così veglia sul tempio della memoria.